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Percorso boliviano - L’altipiano delle lagune

7 ottobre 2015

Partiamo di buon mattino da San Pedro d’Atacama (Cile) e in solo 45 chilometri di buona pista saliamo alla considerevole quota 4.630 metri del passo del Cajon; qui un traliccio in ferro segna il confine politico con la Bolivia. Dal traliccio prendiamo la pista a ovest, quella che scende alla laguna Verde che si trova alla considerevole quota di circa 4500 metri. A quest’altitudine la temperatura notturna scende spesso sotto i 15 °C e le modeste camere del rifugio sono riscaldate da stufe a legna, e quella più utilizzata è la larezia, una singolare ombrellifera di consistenza legnosa che forma curiosi cuscini di un splendente verde smeraldo. Visitiamo la laguna Verde che è suddivisa in tre invasi comunicanti ciascuno di una diversa tonalità di verde-azzurro. Le acque di questa laguna sono sature di borace e il vento agitandole, genera di continuo una lieve e bianchissima schiuma in perpetuo movimento. Lungo il percorso ammiriamo stupiti le splendide montagne che circondano quest’attraente specchio d’acqua, compreso l’imponente vulcano Licancabur, alto 5.868 metri. Il giorno successivo imbocchiamo la pista in direzione nord fino a raggiungere la laguna del Challviri, che è la meno interessante delle grandi lagune, quindi, superati due passi di 4.710 e 4.630 metri scendiamo ripidamente dalla gola del diavolo verso la splendida laguna Colorada che si trova a 4.278 metri di quota. La colorazione delle sue acque è dovuta alla presenza di microrganismi, specialmente la Dunaliella salina, ma anche altre alghe, le quali provocano uno straordinario fenomeno di pigmentazione che, secondo le ore del giorno e l’avvicendarsi delle stagioni, passa dal giallo al rosso, dal rosa al viola in infinite e mutevoli gradazioni. Come le altre lagune anche questa ha salinità più che doppia rispetto a quella del mare. Costeggiamo la laguna Colorada dal lato sud-ovest fino a raggiungere i vistosi geyser e le sorgenti geotermiche, segno evidente che questa zona è interessata da un’intensa attività vulcanica. Durante questa escursione ci fermiamo spesso a osservare tre delle sei diverse specie di fenicotteri esistenti al mondo: quello del Cile, delle Ande e di James. I fenicotteri andini sono assai numerosi nelle lagune e si distinguono per la loro notevole taglia e per le piume nere delle ali. Il fenicottero del Cile, che è il più robusto, si nutre soprattutto di gamberetti (Artemia), e di molluschi (Cerithium), che cattura sul fondo del lago. Gli isolotti che osserviamo al largo della laguna sono, in effetti, formati da ghiaccio galleggiante, ricoperto da uno strato di cenere farinosa come l’aragonite e borati, ma anche solfati e calcite. Attraenti sono anche le candide spiagge coperte dal giallo smagliante dei cespugli di “paya brava”. Terminata questa escursione, attraversiamo in senso longitudinale, cioè da sud a nord, il deserto del Cilales, un lungo corridoio arido racchiuso tra due catene vulcaniche dalle forme bizzarre e dalle infinite tonalità di rosso, marrone, giallo e nero reso ancor più brillante dall’aria limpida e rarefatta dell’altipiano. Lungo questo tratto a volte ci fermiamo a fotografare le enormi rocce solitarie dalle forme bizzarre che interrompono piacevolmente lo sconvolgente ed eccitante altopiano. Superiamo piccoli specchi d’acqua d’origine glaciale quali, laguna Ramaditas e Laguna Honda entrambe di forma circolare, l’Hedionda dalle acque maleodoranti e laguna Conapa dalle spiagge bianchissime. In questa zona è possibile osservare oltre ai fenicotteri, anche le viscacce e qualche sparuto branco di vigogne e guanachi. La viscaccia nota anche come cincillà di montagna assomiglia a un coniglio e può raggiungere mezzo metro di lunghezza. Questo simpatico animale, cacciato talvolta per la pelliccia, è il roditore più caratteristico delle zone aride andine. Al contrario delle viscacce di pianura che scavano le tane in gallerie sotterranee, quelle di montagne vivono nelle pietraie e nelle cavità rocciose in colonie composte da numerosi individui imparentati fra loro. Le due specie di viscacce insieme ai cincillà formano la famiglia dei cincillaidi. Dopo aver percorso dalla laguna Verde circa 150 chilometri e dopo aver superato il vulcano Oyahue, iniziamo a scendere di quota verso il salar di Chiguana, quindi, dopo averlo attraversato, entriamo nel villaggio di San Juan, minuscolo insediamento dall’aspetto western che come moltissimi altri villaggi dell’altopiano, potrebbe concorre con merito quale paese più sfortunato della Bolivia. Qui visitiamo l’antica e l’interessante chiesetta in mattoni crudi del cimitero. A questo punto per raggiungere la città di Uyuni si sono due piste fattibili, noi prendiamo quella settentrionale, cioè quella più spettacolare, quella che attraversa da ovest a est l’incredibile salar che ci appare accecante oltre che sconfinato. Con i suoi 9.750 chilometri quadrati è il più grande e più alto bacino di sale del mondo; si trova, infatti, a un’altitudine di 3.668 metri. Secondo i geologi esso si formò a causa dei tremendi movimenti tettonici che generarono la stessa cordigliera andina. La superficie ai bordi del salar sembra formata da uno strato di neve granulosa ma più si viaggia verso il centro più essa appare come una piacevole tessitura geometrica di esagoni sempre più regolari: un paesaggio lunare creato ad arte dalle portentose forze naturali, quali il vento e il gelo. Lungo le piste, lisce e diritte come un fuso, corriamo con soddisfazione. A volte qualche cumolo di ciottoli segna la direzione dell’effimera pista; servono a orientarsi, ci conferma Rene, la nostra guida. Raggiunta la “riva” orientale del salar e attraversato il villaggio di Colchani raggiungiamo, dopo una ventina di chilometri, la città di Uyuni, importante nodo ferroviario, che vive praticamente di commercio e del mercato settimanale. Il giorno successivo lo dedichiamo interamente alla scoperta del salar che è anche una smisurata salina. Ritorniamo a Colchani, il villaggio dei salinari: qui vive un piccolo numero di famiglie che tuttora sfrutta faticosamente e in maniera assai primitiva e originale, una minuscola parte di questo immenso deposito. Tutte le mattine della stagione secca (che va da giugno ad agosto) i salinari vanno in bicicletta a preparare i pani di sale che verranno poi caricati sui camion per il trasporto. Una volta non erano i camion a trasportare il sale, ma gli stessi campesinos con i lama. Venivano organizzate delle carovane che andavano verso le valli più lontane a scambiare i pani di sale con i prodotti agricoli non producibili in questa arido territorio. Per ripararsi dal freddo pungente e dal sole accecante i salinari sono costretti a lavorare con il passamontagna di lana e gli occhiali scuri. Come prima operazione raschiano la superficie della crosta salina quindi sistemano il neonato “fior de sal” in tanti cumuli pronti per essere impacchettati per il trasporto quindi, in un secondo momento, con colpi d’ascia ben assestati tagliano la crosta formando tanti pani tutti uguali di circa cinque, cinque chili e mezzo ciascuno. Così per tutta la vita. Da Colchani “navigando” verso ovest arriviamo, dopo circa 75 chilometri, all’isola Pescado; termine scaturito alla sua forma che è simile a quella di un pesce. L’intera isola è un’area protetta, qui crescono i giganteschi cactus, alti fino a cinque metri, che bene si sono adattati all’aridità e salinità del suolo. Infine, “navigando” verso nord raggiungiamo dopo una quarantina di chilometri il villaggio di Jirira, situato ai piedi del vulcano Tunupa, dove trascorreremo la notte nel rifugio di mamá Lupe.