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Le case dei Tamberna del Benin

4 marzo 2014

Viaggio nella valle dei Tamberna, gli “architetti” animisti dei monti Atakora (Benin settentrionale), per conoscere tradizioni e costumi vecchi di secoli che ancora oggi vengono scrupolosamente osservarti e custoditi come prezioso retaggio del passato.

Nella provincia di Natitingou, nel nord ovest del Benin, la pianura termina bruscamente ai piedi dell’Atakora, le montagne che segnano il confine con il Togo. In quest’Africa, rimasta isolata per molto tempo dal resto del Paese vivono i Tamberna, conosciuti fino a pochi decenni fa come sombà che nella lingua locale significa “nudo”, termine oramai privo di significato visto che dagli anni ’70 del secolo scorso questa tribù ha abbandonato la nudità totale a seguito dell’influenza moralizzatrice dei missionari cristiani e dalle successive imposizione del governo locale e centrale. Prima di allora gli uomini indossavano solo l’astuccio penico ed erano armati con arco e frecce mentre le donne portavano un gonnellino di foglie fresche che sostituivano periodicamente.

Durante la nostra breve permanenza nell’Atakora, avvenuta nei primi giorni di dicembre di qualche anno fa, percorriamo svariate piste che salgono e scendono nel cuore di queste montagne per raggiungere le case-fortezza dei Tamberna, popolo che ha mantenuto intatte usanze religiose e stili di vita tradizionali grazie all’isolamento geografico che li ha praticamente estraniati dall’evoluzione del Paese. Guerrieri fino a mezzo secolo fa i Tamberna accolgono oggi con grande ospitalità lo straniero che visita i loro villaggi. L’unico vero problema durante queste escursioni è stato il fastidioso harmattan, il vento secco proveniente dal Sahara, che soffia durante la stagione secca compresa fra dicembre e marzo.

Allineate da sud-ovest a nord-est queste colline pietrose sono servite, nei secoli XVIII e XIX, da rifugio alle popolazioni sombà, in fuga dalle migrazioni sudanesi e dalle ostilità imposte dai Bariba, i cavalieri islamici signori dell’antico Regno Bariba, e probabilmente le case-fortezza (oggi patrimonio dell’umanità protetto dall’Unesco) sono un’eredità di quelle epoche nelle quali difendersi e salvaguardare la propria integrità religiosa erano priorità assolute. Queste inoltre venivano strategicamente costruite distanti tra loro per costringere gli attaccanti a dividersi in più gruppi indebolendo notevolmente il loro potenziale offensivo.

Oggi i Tamberna sono conosciuti per le loro abitazioni fortificate molto simili a piccoli castelli delle fiabe e per la particolare devozione agli spiriti degli antenati che ancora vengono scrupolosamente osannati e il loro ricordo custodito con cura per anni e anni. A questi spiriti i capi famiglia donano periodicamente offerte propiziatorie allo scopo di tenere lontane carestie, malattie e altre calamità naturali e ottenere dei benefici come la pioggia e un buon raccolto. Essi credono che il proprio destino sia riposto nelle mani degli spiriti degli antenati i quali fungono da intermediari tra l’uomo e le varie divinità che risiedono, a volte, nella terra, nelle rocce, negli alberi o nei corsi d’acqua.

Queste case-rifugio in fango e paglia conosciute con il nome di Tata sono uno dei più begli esempi di architettura tradizionale africana. Siamo distanti anni luce dal classico significato di tucul; queste costruzioni sono, infatti, delle opere artistiche di grande gusto, armoniose e piacevoli da vedersi. La loro grandezza è abbastanza imponente se si considera che vengono costruite senza l’ausilio di una vera struttura portante: hanno forma circolare e in pianta hanno una dimensione compresa fra 12 e 13 metri di diametro (con la base più grande del tetto) e un’altezza che a volte supera 4 metri e mezzo. La facciata principale, dove si trova anche l’unica porta di accesso, è cinta da due torrioni protetti da altrettanti ampi tetti conici in paglia amovibili per facilitare l’entrata ai rispettivi granai divisi in vari scomparti nei quali viene sistemato il raccolto separato per qualità: sorgo, miglio e fonio, cereale diffuso nella zona sudanese, e altri prodotti come fagioli e arachidi da utilizzare durante la stagione secca. Questi occupano solo la parte superiore delle torrette mentre il vano inferiore è utilizzato indifferentemente come stalla o ripostiglio.

Dedichiamo l’intera giornata a esplorare questa remota regione; percorriamo le piste più importanti tra sobbalzi e mulinelli di polvere creando a volte scompiglio agli insolenti stormi di gallinelle della savana che razzolano sempre, chissà poi perché, lungo la strada. Impolverati e accaldati ci fermiamo là dove la pista carreggiabile finisce, e seguendo un sentiero che a fatica si fa spazio fra i campi irti di stoppie raggiungiamo una di queste fattorie-castello. Lungo il sentiero incontriamo alcune donne avvolte in eleganti parei multicolore allacciati in vita: si muovono veloci a piedi nudi sul terreno accidentato nonostante il peso del piccolo che portano sulla schiena. Raggiunto il villaggio-famigliare sorto all’ombra di enormi baobab, veniamo letteralmente circondati da uno stuolo vociante di donne, uomini e bambini. Goffredo, la nostra guida-interprete, ci fa osservare, all’esterno della Tata e alla destra di chi entra, i diversi feticci a forma fallica che sono stati eretti per onorare i membri della famiglia. Ci racconta anche che per tradizione, quando nasce un bimbo, il capo famiglia erige vicino agli altri feticci un minuscolo mucchio di fango che verrà ingrossato a ogni rito di passaggio per cui più anziano è l’individuo, più grande sarà il suo simulacro: in pratica esso rappresenta l’inizio della relazione con il mondo invisibile. Quando una persona muore, verrà sistemata sopra al suo feticcio una ciottola di terracotta rovesciata o, più raramente, una pietra. A questo punto la nostra attenzione cade su alcuni altari ricoperti da teschi, ossa e piume di galline; “sono i resti degli animali sacrificati dal capofamiglia per onorare lo spirito dell’antenato” sentenzia la nostra guida.

Iniziamo a fotografare quello che a noi sembra più un castello fiabesco, formato da varie torrette rotonde unite fra loro da mura alte un paio di metri, che una vera e propria casa. Una moglie del capo famiglia ci fa entrare e come spesso accade in Africa, anche qui finiamo nell’abitazione di qualcuno. Dopo aver varcato la soglia dell’ingresso, a fatica individuiamo nel buio e tetro interno l’“altare” dedicato agli spiriti degli antenati, formato da vari feticci, alcuni dei quali hanno una vaga forma antropomorfa, ricoperti con piume di diversi volatili. Svariati teschi e ossa di animali sacrificati secondo riti ancestrali adornano diverse pareti. Notiamo inoltre che alcuni feticci sono stati decorati con conchiglie cauri che, per la loro particolare forma anatomica, rappresentano la fertilità. Sempre al piano terra è sistemato il mortaio per pestare il fonio e la mola di pietra per sminuzzare il mais e il sorgo. I membri della famiglia dormono separati secondo ferree gerarchie: il piano inferiore è destinato agli uomini, in modo da poter intervenire con rapidità in caso di minaccia, a difendere donne e bambini che invece alloggiano in anguste “stanze” claustrofobiche, ricavate in altrettante torrette costruite sulla terrazza del secondo piano, nelle quali si può entrare strisciando soltanto all’indietro passando attraverso lo stretto pertugio circolare. Il piano terra è destinato anche ad alloggiare nelle ore notturne gli animali domestici e a fungere da magazzino. Una ripida scala conduce al piano superiore, dove si trova la terrazza racchiusa all’interno di un parapetto cieco. Su queste terrazze i Tamberna trascorrono parte della propria giornata: essa, infatti, viene usata come luogo di lavoro e per fare essiccare i cereali. Un pianerottolo ricavato tra i due piani serve da rudimentale cucina durante la lunga stagione delle piogge. Il solido pavimento della terrazza è reso impermeabile dalla scorza del frutto della neré, una mimosacea che cresce spontanea in tutta la fascia sudanese, che viene aggiunta nel tradizionale banco (l’impasto d’argilla, sterco e paglia, tipico dell’Africa Occidentale).

Il giorno seguente durante una di queste visite incontriamo alcune ragazze che indossano uno strano cappello a forma di cesto di vimini rovesciato ornato con conchiglie cauri e sormontato da un paio di corna d’antilope. Si tratta di un copricapo rituale, così ci racconta il capo famiglia, e viene indossato durante la cerimonia di iniziazione chiamata Dikuntiri. Dopo tale cerimonia, continua nella sua narrazione l’anziano signore, le ragazze, riconosciute adulte, possono unirsi formalmente ai propri mariti, che le avevano prese in moglie quando queste erano ancora bambine. Prosegue dicendoci che una piccola e rilevante cerimonia sancisce questo ricongiungimento: “quando la sposa entra per la prima volta nella casa-fortezza del marito, questi le infila una freccia tra le corna d’antilope del copricapo, catturandola metaforicamente come fa il cacciatore quando cattura la sua preda”.

Questo gruppo etnico ha, come consuetudine un amore morboso per la cura del corpo che si concretizza qui con le vistose scarificazioni ornamentali che adornano la pancia e le braccia e per il tradizionale gioiello labiale di quarzo bianco simile a un cuneo del diametro di un paio di centimetri che le donne portano infilato sotto il labbro inferiore mentre la maggioranza degli uomini continua a indossare il caratteristico copri capo tradizionale decorato con pelo di scimmia.

Al termine di quest’ultima visita partiamo per Natitingou percorrendo la stessa pista dell’andata. Il sole è quasi al tramonto e qua e là salgono colonne di fumo. Dal finestrino della Toyota vediamo scorrere velocemente le stupefacenti case-fortezza e i campi riarsi attraversati dai caparbi Tamberna in cammino verso i propri rassicuranti fortini di fango circondati da enormi baobab che innalzano i loro rami contorti e privi di foglie verso il cielo color madreperla.