Etiopia - Trekking nei monti del Simyen
3 marzo 2015
Etiopia - Trekking nei monti del Simyen, un’Africa particolare, una “isola” nel continente dove piante e animali hanno seguito un’evoluzione autonoma, diversa dal resto del pianeta.
Si parte da Gondar, nel cuore dell’Etiopia.
Da quest’antica capitale inizia uno dei più affascinanti itinerari dell’acrocoro etiopico: il trekking nelle Simyen Mountains. Un itinerario di tre giorni a metà strada tra avventura e vacanza, da percorrere in fuoristrada e a piedi lungo vallate e ambe d’alta quota per avvicinare i suoi straordinari animali molti dei quali endemici. L’isolamento geografico di questo complesso montagnoso, paragonabile a un insieme di vere e proprie isole vegetali, ha influenzato profondamente le caratteristiche evolutive della flora e della fauna, tanto da diventare uno dei luoghi naturali più interessanti dell’Africa.
Raggiungiamo Debark, minuscola cittadina e sede del Centro amministrativo del “Parco Nazionale del Simyen”, di sabato, giorno di mercato, e subito abbiamo la sensazione di trovarci dentro una rappresentazione teatrale in costume, con attori e comparse vere e con, in più i profumi, le voci, i colori e il contatto fisico con una moltitudine di persone che ti osserva, ti esamina attentamente, ti sfiora, ti evita oppure ti spinge quando deve passare tra un cumulo di merce e l’altra esposta direttamente in terra. Questo è un mondo in frenetica attività: per l’amhara il lavoro e il commercio sono indici di onestà e indipendenza.
Dopo aver ottenuto dall’ufficio del Parco l’indispensabile ranger armato e le giuste informazioni prendiamo la pista per il Simyen Lodge, un incantevole sistemazione a quota 3.260 metri che raggiungiamo in circa un’ora di fuoristrada. Qui scopriamo che questo è il Lodge più alto d’Africa.
Nel pomeriggio affrontiamo il nostro primo trekking che si snoda nella valle compresa tra il costone meridionale del Tirf, una montagna di 3.277 metri e l’Amba Aman (3.292 m). A queste altitudini la luce naturale è incantevole: i contrasti sono nitidi, puri e forti. Scendiamo di qualche decina di metri in questa valle che si affaccia su un dirupo per osservare da vicino un branco di scimmie Gelada (Theropithecus gelada) o scimmia leone, un primate vegetariano dal manto peloso marrone sfumato sulle punte di beige che la nostra guida aveva in precedenza avvistato. Questa scimmia trae il suo nome dalla caratteristica criniera che cinge la testa e le spalle dei maschi. Raggiunto il luogo indicato, la nostra guida ci invita a sedere in terra e dopo pochi minuti siamo completamente circondati da una moltitudine di scimmie gelada. Da questa posizione privilegiata vediamo passare davanti ai nostri occhi l’intero branco formato da più maschi adulti con il proprio harem di femmine con i piccoli. L’emozione è al massimo. Le Gelada trascorrono gran parte della giornata alla ricerca di erbe e radici di cui si nutrono, mentre il resto del tempo lo passano spulciandosi a vicenda, azione sociale utile a tenere pulita la folta pelliccia. Da questa posizione, osserviamo con comodità la curiosa macchia rossa che caratterizza entrambi i sessi. Si tratta di un’area priva di peli di forma simile a un cuore, alla base del collo, che nelle femmine, è contornata da delle protuberanze biancastre che durante il periodo mestruale aumentano di dimensioni e diventano rosse. Incantati dall’incredibile spettacolo, restiamo in questa posizione per circa mezz’ora cercando, come ci aveva suggerito il nostro ranger, di non fare movimenti bruschi e di non fissarle a lungo negli occhi per non innervosirle. Durante il trasferimento in un altro pianoro la nostra guida, molto attenta e solerte, ci indica alcune specie vegetative tipiche di quest’area quali la Erica arborea e l’Hagenia abyssinica, un albero ornamentale endemico dai singolari fiori e frutti a grappolo. Incontriamo lungo questo trasferimento a ridosso di un imponente dirupo un altro consistente branco di gelada e di nuovo ci fermiamo a osservare e fotografare il più famoso abitante del Simyen. La nostra guida ci fa notare che con l’avvicinarsi del calare del sole le gelada frequentano solo le zone vicino ai precipizi, luogo che scoraggia gli eventuali predatori, e offre al tempo stesso un nascondiglio sicuro per trascorrere la notte. Nel tardo pomeriggio rientriamo al logde per goderci in tranquillità il tramonto infuocato.
Il giorno successivo partiamo con il fuoristrada per Sankaber Camp, vecchio campo a 3.240 metri di quota equipaggiato con modeste infrastrutture che comprendono un lodge basico per 16 posti letto e offre la possibilità di poter cucinare. Raggiunto il belvedere Tiya Afaf, seguiamo un sentiero pedonale sulla sinistra che conduce nel punto più stretto dello sperone, dove s’incontra ancora la pista principale percorrendo la quale si raggiunge in pochi minuti il rifugio Sankaber appollaiato come un nido d’aquila su un impressionante sperone roccioso tra la scarpata a nord e il burrone di Wazla a sud. Da questo balcone naturale è impossibile sfuggire a un inebriante senso di vertigine: l’incisione dei fiumi è profonda, il paesaggio è tormentato da gole vertiginose. Osserviamo meravigliati l’aspro altipiano vulcanico, corroso da rughe imponenti che ne tradiscono l’età, sempre giovane in confronto a quella della terra. Gli orizzonti sono sconfinati fino ad abbracciare cinque o sei valli in lontananza. Le ambe hanno tutte le tonalità della terra. Terre coloratissime, accostate in contrasti cromatici sorprendenti. Il trekking odierno si snoda intorno al Nigus Aysimush (3.304 m) e termina al Deche Nedala, un interessante punto di osservazione distante circa un’ora di cammino. Lungo questo percorso è facile avvistare la Capra ibex walie, o stambecco dell’Abissinia, una delle sei capre selvatiche esistenti al mondo ormai sull’orlo dell’estinzione: un recente censimento ha rilevato che ne sopravvivono circa ottocento esemplari. Raggiunta la base del Nigus Aysimush, il nostro ranger individua un piccolo gruppo di ibex sulla sommità del monte. Decidiamo quindi di seguirlo in un avventuroso percorso fuori sentiero e dopo aver superato pendenze mozzafiato e aggirato enormi massi e cespugli di Poa e Danthonia, tipici ciuffi perenni che crescono nelle zone più impervie, raggiungiamo un buon riparo dal quale possiamo osservare e fotografare questo interessante mammifero che durante la giornata vive al riparo nelle zone rocciose. La caratteristica principale della specie è il forte dimorfismo sessuale: la dimensione del maschio, che ha corna grandi e massicce, è quasi doppia rispetto a quella della femmina che arriva a pesare forse cinquanta chili e ha corna minuscole e leggere. Ritorniamo dopo circa tre ore d’interessante escursione al Sankaber Camp quindi, dopo un breve spuntino, raggiungiamo con la fedele Toyota il passo Bwahit situato a 4.200 metri di quota. Lungo questo serpeggiante percorso ci fermiamo più volte per fotografare e ammirare la lobelia gigante (Lobelia rynchopetalum), caratteristica dracena formata da un fusto alto circa due metri ricoperto di foglie larghe e lucenti che raggiungono i 70 centimetri di lunghezza. L’infiorescenza alta circa sette metri è formata da piccoli fiori riuniti a grappolo di colore bianco e verde. Quindi saliamo sulla vetta del monte Bwahit (4.430 m) per osservare uno dei panorami più drammatici del Simyen: l’impressionante formazione rocciosa del Ras Dejen (4.533 m), quarto in altitudine del continente africano, e la ripida scarpata rivolta a est con la sottostante valle del fiume Mesheha.
Questa è una delle rare zone dove è possibile osservare il solitario cane del Simyen (Canis simensis), conosciuto anche come lupo etiope. Accusato di assalire gli animali domestici, così leggende e tradizioni l’hanno dipinto per secoli, è stato cacciato senza pietà e ora è una specie a rischio di estinzione. Noi non siano stati fortunati, nessun avvistamento: la nostra guida però per consolarci ci racconta che in tutto il Simyen forse ne sopravvive solo una trentina di esemplari e che essendo, in realtà, un animale schivo è quasi impossibile incontrarlo.
Durante il meritato riposo ci dedichiamo all’osservazione delle rare specie di uccelli quali l’avvoltoio barbuto (Gypaetus barbutus), l’aquila Tawny (Aquila rapax) e il corvo Thick-billed (Corvus crassirostris) che spesso volteggiano sopra le nostre teste.
La mattina del terzo giorno percorriamo a ritroso e a piedi la pista del primo giorno fino a raggiungere l’ingresso del Parco. Seguiamo la strada che si snoda in un paesaggio di continue colline coltivate a teff e altri cereali; rompe la monotonia della pista, una fila di donne, avvolte nel tipico shamma, il leggero e bianco drappo di cotone che viene indossato sopra il vestito e copre il corpo dalla testa ai piedi e un uomo in sella al suo cavallo bardato a festa. Durante questo percorso della durata di circa tre ore superiamo minuscoli centri abitati semi nascosti dalla vegetazione. La prima sensazione che proviamo visitando questi remoti villaggi è che essi sembrano disabitati, a parte gli animali domestici; comunque i pochi presenti ci accolgono sempre con grande ospitalità. La maggioranza della popolazione parte al mattino presto per raggiungere la vicina città di Debark o per lavorare nei campi oppure per raccogliere l’acqua e la legna da ardere. I pochi bambini presenti ci osservano con sguardi interrogativi ed eccitati e ci scortano durante la visita del povero villaggio formato da uno sparuto gruppo di tucul in paglia e fango. Alcuni ragazzini più grandi ci offrono in vendita i caratteristici cappellini di lana fatti a mano dalle sorelle più grandi: come si fa a non comprarli? Qui abbiamo avuto la sensazione che il tempo si fosse fermato: la vita degli abitanti di queste montagne rimasti isolati per millenni, scorre tranquilla, senza fretta scandita da antiche tradizioni, è custodita da un cristianesimo arcaico.
All’ingresso del parco incontriamo il nostro fuoristrada. Non c’è tempo per pensare. Ripartiamo velocemente per Gondar. Il sole tramonta e inonda di flebile luce l’altipiano. Il rito del “mal d’Africa” continua.