Benin – Viaggio a Ganvié, la “Venezia eneolitica”
20 gennaio 2015
Ganvié, inserita dall’Unesco nella lista dei luoghi culturali di prossima iscrizione, è un villaggio spettacolare, unico nel suo genere in tutto il continente africano.
Fu costruito dai Tofinu tra il XVI e XVII secolo nelle malsane lagune settentrionali del Nakoué, il lago che si trova a una ventina di chilometri da Cotonou, la capitale del Benin, per sfuggire agli attacchi degli schiavisti Fon, un bellicoso gruppo etnico, loro confinante, che vive tuttora sulla terraferma. Non a caso Ganvié significa, nella lingua dei Tofinu, “la comunità dei salvati: questa nome proprio nasce, infatti, dall’unione di due importanti vocaboli: Gan che significa “siamo salvi” e vie che vuol dire “comunità”. Queste inespugnabili paludi sono servite anche a proteggere i Tofinu dalla dominazione coloniale preservando così un particolare sistema sociale e famigliare e un solo universo religioso: la devozione degli antenati e il culto del vudù.
Cotonou è anche per noi il punto di partenza più indicato per raggiungere il villaggio di Abomey Calavi dove ci attende una barca a motore per trasportarci al villaggio di Ganvié attraverso la grande laguna che durante la giornata è percorsa in lungo e in largo da imbarcazioni di ogni tipo.
Entriamo nella cittadina lacustre dal “Canale dell’amore” che è la via d’acqua più trafficata del villaggio e raggiungiamo la “piazza” dove si trova l’hotel Raphael, anch’esso costruito rigorosamente in legno su palafitte.
Sbalorditi osserviamo la struttura di Ganvié, che il più grande villaggio palafitticolo della laguna, e da qualunque parte si guardi il panorama è identico. Tutto poggia su palafitte di tek, un legno imputrescibile: le semplici abitazioni a pianta quadrata, lo spartano hotel, il minuscolo ospedale e i rari camminamenti pedonali.
La vita anfibia di questo popolo si spinge all’inverosimile ed è tutta concentrata sull’acqua e nell’acqua: ogni donna, ogni uomo e ogni bambino possiede una piroga che utilizza per spostarsi da un zona all’altra del villaggio; la vela viene invece usata per affrontare i percorsi più lunghi all’interno della grande laguna. Tutte le attività pubbliche avvengono nell’acqua compreso il mercato che si tiene in un grande spazio lacuale: ci sono piroghe-bancarelle e un gran via vai di acquirenti che si muovono in barca. I bambini sono dappertutto, pronti a tuffarsi, a pescare o a pagaiare su quelle minuscole piroghe costruite su misura per le loro piccole braccia; già all’età di due, tre anni sanno navigare e a cinque sono in grado di pescare.
L’attività principale per i Tofinu è ovviamente la pesca e nell’attraversare la laguna notiamo che essa formicola tutta di pescatori. Alcuni pescano con il giacchio, la rete viene lanciata con abilità e fatta cadere ad ombrello, altri invece utilizzano tecniche antiche come l’acadja, un ingegnoso sistema di pesca ancora oggi molto diffusa: sul fondale sabbioso vengono piantate delle recinzioni circolari subacquee formate da pertiche di bambù e paglia dove il pesce troverà un rifugio sicuro per crescere e riprodursi. Trascorsi circa tre mesi il pescatore vi calerà un’ampia rete per catturarli con facilità. In terra ferma i Tofinu barattano il pesce e l’olio di pesce con carburanti, vegetali e soprattutto con la preziosa acqua potabile qui introvabile.
Trascorriamo la notte nello spartano hotel Raphael. Dalla finestra della nostra cmera-palafitta osserviamo nelle acque antistanti all’albergo un ultimo sparuto gruppo di vivacissimi bambini che giocano ancora con allegria: alcuni sono completamente nudi, altri coperti solo da qualche straccio. Con il sopraggiungere dell’oscurità della notte il silenzio è interrotto soltanto dall’emozionante ritmico fruscio delle pagaie sull’acqua. Che notte emozionante abbiamo vissuto!